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Altrove da me di Lucilla Galanti
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Altrove da me di Lucilla Galanti
Chi è il protagonista principale di “Altrove da me” di Lucilla Galanti? Sicuramente il Disagio.
Questo sostantivo apparentemente astratto che popola le pagine del racconto, con i suoi caratteri di stampa diversi dal resto, assume una sua consistenza di “corpo” che trasuda dal libro man mano che la protagonista deputata perde il suo. Come definirlo? Condizione sgradevole o mancanza di qualcosa di necessario? Forse entrambi. Cosa porta a sentire di essere estranei a se stessi fino a credere di essere altrove da sé? Tutte sensazioni provate: il progressivo allontanamento dal mondo, le crisi di panico, l’insonnia e allo stesso tempo il desiderio di dormire e viceversa, sentire di dover chiudere gli occhi per la spossatezza, ma non volerlo fare per timore di perdere il controllo del proprio corpo. Vedere quello che non c’è e sentire ciò che gli altri non sentono: reinterpretare i sensi. Leggere un romanzo come questo in un momento di proprio disagio è quasi una catarsi rovesciata, perché LUI ti aggredisce tra le righe infiltrandosi dentro di te senza nemmeno la speranza di purificazione.
Se per un verso l’effetto è distruttivo, dall’altro significa una sola cosa: che chi lo ha scritto, lo ha fatto bene. I rimandi letterari sono quasi scontati, come non pensare alla metamorfosi kafkiana o alle più recenti visioni allucinate burroughiane, tanto che il racconto potrebbe essere un buon soggetto per un film di Cronenberg. Anche lo stile cambia a seconda della necessità, a seconda di chi sta “parlando”, fino ad assumere la forma di un delirio grammaticale con la punteggiatura volubile, se non assente, in puro stile joyciano, come quando il soggetto è Dimitri, il salvatore ritardato. Se dovessi trovare una pecca a tutti i costi, direi che il finale (la guarigione) mi è parso un po’ troppo repentino: forse perché non si guarisce mai fino in fondo.
Questo sostantivo apparentemente astratto che popola le pagine del racconto, con i suoi caratteri di stampa diversi dal resto, assume una sua consistenza di “corpo” che trasuda dal libro man mano che la protagonista deputata perde il suo. Come definirlo? Condizione sgradevole o mancanza di qualcosa di necessario? Forse entrambi. Cosa porta a sentire di essere estranei a se stessi fino a credere di essere altrove da sé? Tutte sensazioni provate: il progressivo allontanamento dal mondo, le crisi di panico, l’insonnia e allo stesso tempo il desiderio di dormire e viceversa, sentire di dover chiudere gli occhi per la spossatezza, ma non volerlo fare per timore di perdere il controllo del proprio corpo. Vedere quello che non c’è e sentire ciò che gli altri non sentono: reinterpretare i sensi. Leggere un romanzo come questo in un momento di proprio disagio è quasi una catarsi rovesciata, perché LUI ti aggredisce tra le righe infiltrandosi dentro di te senza nemmeno la speranza di purificazione.
Se per un verso l’effetto è distruttivo, dall’altro significa una sola cosa: che chi lo ha scritto, lo ha fatto bene. I rimandi letterari sono quasi scontati, come non pensare alla metamorfosi kafkiana o alle più recenti visioni allucinate burroughiane, tanto che il racconto potrebbe essere un buon soggetto per un film di Cronenberg. Anche lo stile cambia a seconda della necessità, a seconda di chi sta “parlando”, fino ad assumere la forma di un delirio grammaticale con la punteggiatura volubile, se non assente, in puro stile joyciano, come quando il soggetto è Dimitri, il salvatore ritardato. Se dovessi trovare una pecca a tutti i costi, direi che il finale (la guarigione) mi è parso un po’ troppo repentino: forse perché non si guarisce mai fino in fondo.
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